Qualche tempo fa mi è venuta un’idea per un libro. Più che un romanzo si tratta di una specie di prontuario. Non voglio svelare il contenuto ma il protagonista è – e rimane sempre – Dante. La sua saggezza. Il suo mondo. Il suo Spazio. Ci sto lavorando; non sono che all’inizio. Sarà lunga, quindi non ho alcuna idea su quando sarà finito. Potrebbe anche darsi che mi interrompa a metà e inizi qualcos’altro. Faccio spesso così. Colpa della mia perenne insoddisfazione. Intanto però vi regalo qualche riga tratta dall’Introduzione (più o meno al centro). Accontatevi.

Dell’Alighieri ho un sempre conservato un ricordo particolare. Un ricordo che negli anni si è trasformato in affetto. Sino a diventare amore. Folle. La prima testimonianza di cui io abbia memoria è una Divina Commedia con le incisioni di Gustave Doré; un librone massiccio che non veniva sfogliato quasi mai e per ovvie ragioni. Lo tenevamo lì, in salotto, per incutere timore agli ospiti, ma nessuno si azzardava a tirarlo giù. Sormontava il mobile, come uno stilita imperscrutabile, arroccato sulla sua torre d’avorio. Mi era bastata un’occhiata per capire che si trattava di qualcosa di serio. In copertina avevano messo l’illustrazione del XXIV canto: dannati e serpenti intrecciati tra loro in un grandguignol di sangue e fiamme. Ne ebbi presto una gelida repulsione. Poi, allorché mi fu permesso aprirlo («sì, ma non rovinarlo!», «mi raccomando, non fare le orecchie alle pagine!»), capii che non era un libro da leggere. I canti erano stati stampati per il lungo, in una serie di colonne infinite, senza paragrafatura e senza pause. Quello che altrove era l’unica chiave di accesso, ovvero le note, erano state ridotte all’osso. In questo modo sì, la Divina Commedia era stata restituita alla sua originaria purezza, ma il lettore più ingenuo e più sprovveduto, come il sottoscritto a dieci anni, poteva solo rassegnarsi a trovare un po’ di sollievo nei disegni tra i quali, tra budella pencolanti e capi mozzati, ahimè, c’era poco di cui soddisfare la sua curiosità. Senonché appunto, i disegni stiracchiati da un angolo all’altro in quei paginoni di grana fina, insieme alla loro tetra cifra artistica, costituiscono quel che fu allora il mio primo incontro con Dante.
Per arrivare al testo, dovetti prima ritrovarmi tra le mani una di quelle edizioni scolastiche, uno di quei mattoni dove devi sorbirti vita dell’autore, bibliografia ragionata, antologia delle opere minori, sinossi, schemino con l’imbuto, la montagna, i dischetti. Quindi il riassunto per canti e la traduzione in italiano moderno. Poi, alla fine, forse, il testo. Alleluia. Il tutto affogato in un semifreddo di note a piè di pagina che rimandano all’infinito la lettura. Sia chiaro: non sono contrario per principio. Ma ciò rischia di frapporre un divario insuperabile tra lo studente e lo ‘studiato’. Vale a dire, tra la parola e il suo lettore. Una simile mole di informazioni, se da un lato appunto informa, può suscitare, di contro, una certa avversione, seguita, nel peggiore dei casi, da orticaria e paralisi degli arti. Immaginiamo di andare al cinema. Ci sediamo nella nostra comoda poltrona, i popcorn ancora caldi, che centelliniamo, nella speranza di gustarceli insieme all’inizio del film. Siamo ansiosi che lo spettacolo per il quale ci siamo strappati al calore di casa nostra valga la pena. A un certo punto, finalmente, lo schermo si illumina e davanti a noi compaiono, in ordine: il trailer di un film che uscirà tra due anni, le pubblicità di auto, di un parco divertimenti, di mobili arancioni, il trailer di un film che uscirà tra cinque anni, una réclame di giocattoli, di un barbecue da salotto, un catalogo di mariti in affitto, di case su Marte; quindi, un terzo trailer, questa volta di un film che non uscirà proprio, infine una pubblicità dello stesso cinema in cui siamo seduti. E così per venti minuti. Sarebbe un’esperienza atroce. Usciremmo da lì col fermo proposito di non metterci mai più piede. Diremmo a noi stessi: ‘Questa è l’ultima volta che ci vado!’, con un senso sgradevole di essere stati fregati. Si pensi a cosa può provare uno studente del primo anno davanti all’edizione scolastica della sua Commedia nuova di zecca. La sfoglia e non vede altro, tra date e nomi, che elenchi di figure retoriche che paiono malattie infettive. È logico che appena può si butta sui riassunti. Alla mia epoca andavano ancora molto forte i bignami. Ma leggere Dante sui bignami è come limonare con la fotografia di chi ci piace. Non dà lo stesso piacere. Però, mi rendo conto, si tratta in certi casi di un male necessario, e l’amaro calice alla fine ce lo dobbiamo scolare fino all’ultima goccia, col risultato però che, chiuso l’ultimo canto, la nostra bella edizione scolastica, ora tutta pasticciata di appunti, rischia di finire a fare compagnia ai miei costumi medievali: in fondo a uno scatolone.
Un po’ questa è stata la mia esperienza. Anno dopo anno. Mi è toccato studiare Dante. Dico ‘toccato’ proprio per indicare il valore passivo della mia esperienza e poi perché esperienza di solito rima con sofferenza. Studiare Dante non era infatti, in quel periodo, un piacere. Era un obbligo, a cui io, come tutti i miei coetanei, eravamo costretti. Era un argomento che il nostro beneamato sistema scolastico includeva nei programmi ministeriali. Si partiva sempre con Dante. Talvolta si faceva Dante per tutto l’anno, mentre magari eravamo già arrivati a Quasimodo. Nel frattempo, c’era sempre lì Dante, spiegazzato nel sottobanco; e noi, faticosamente, arrancavamo, provati dall’Inferno (che si studiava meglio), stremati dal Purgatorio (di cui a malapena si leggevano i canti di Manfredi e di Sordello), storditi dall’incomprensibilità del Paradiso, sul quale ci soffermavamo giusto il tempo della preghiera alla Vergine (non la nostra, pure intensa, ma mai bella quanto quella di San Bernardo!), perché l’anno, come il nostro entusiasmo, era giunto agli sgoccioli e noi non vedevamo l’ora di liberarci una volta per tutte del divin fardello.
Ce lo spiegavano, anzi più che altro ce lo infliggevano. Almeno che io mi ricordi. Rammento la gravità dignitosissima con cui si iniziava il discorso su Dante. Il professore si raccoglieva in religioso silenzio, congiungeva i polpastrelli e si prendeva una lunghissima pausa di riflessione. Manco dovesse risvegliare uno spirito dell’oltretomba. E quindi, già da quel preambolo, Dante rifulgeva ai miei occhi di un bagliore sinistro. Nel giro di qualche lezione si era ormai dissolto in un’eminenza grigia, in un pomposo profeta, immateriale e disumano. Col risultato che nemmeno in quel modo riuscivo a farmelo piacere. Mi domando ancora oggi perché. La mia risposta oscilla tra la facile tentazione di dare la colpa ai professori, e quella, meno facile, di prendermela con la mia più plausibile superficialità. D’altronde, spiegare Dante non è impresa da poco. Spiegarlo a un tredicenne è dunque forse impossibile. C’è troppa fretta e troppo poco tempo per calibrare un’introduzione che non sia troppo artificiosa e che sappia mantenere viva una già debole fiammella di curiosità. Per fortuna, giocò a mio favore una certa inclinazione agli studi umanistici, la quale, sebbene soffocata da un’altrettanto naturale inclinazione al cazzeggio spinto e al disinteresse più totale, alla fine è servita a salvarmi (almeno in parte) dal baratro seducente dell’asineria. Quel che non facevo a scuola, lo recuperavo nel tempo libero. A scuola friggevo di noia, le esegesi mi annoiavano, poiché le ritenevo pedanti. Uccidevano l’ispirazione e come Crono inghiottivano il trasporto. Per me Dante era la lettura ruggente di Gassman e quella sudatissima di Benigni. Il Dante scolastico mi pareva la lugubre ed ecclesiastica solmisazione di un democristiano della prima ora, che si fosse messo a fare poesia come risultato della sua incapacità di stare al mondo. Io volevo sentir vibrare delle corde che i professori si rifiutavano di toccare; mi aspettavo un saliscendi di emozioni che non arrivavano mai. Vedi il canto di Ulisse. Lo vivisezionavamo, con lentezza, verso dopo verso, terzina dopo terzina. Avrei lanciato in aria il dizionario, se solo avessi potuto urlare io «O frati!» fino a sentirmi bruciare la gola, e sussultare il petto dinanzi all’inabissarsi della nave. Ma quale folle volo, quali frati… Ulisse moriva tragicamente per aver peccato di superbia e a me invece sembrava il pigro congedo di un impiegato del catasto. Per non parlare di Ugolino, che imprigionato nella torre della Muda, rassomigliava nella sua tormentosa indecisione più che a un Macbeth, a un personaggio di Woody Allen, che non sappia mai bene cosa fare. Allora presi a leggere Dante per i fatti miei. Gli concessi un appello privato. Ero desideroso di capire perché ci accanissimo tanto, quale fosse l’origine della nostra goffa ossessione nei suoi confronti. Anche se, all’apparenza, quel piccolo ometto, dal naso lungo e adunco, e lo sguardo torvo, emanava tutt’altro che simpatia. Ci doveva essere un motivo per cui la gente lo venerava. E volevo capire se fosse finzione o realtà. Qual era il suo segreto, che nemmeno sette secoli erano riusciti a scalfire? La sua luce brillava con una forza che non aveva pari in nessun altro poeta, nascosta in un poema melmoso quanto insondabile, che trascinava giù tutti noi, studenti sfigati, mentre seguivamo in quelle sabbie mobili guide poco avvezze a districarsi, e a spingere – quando necessario – all’esplorazione solitaria.
Così mi sedetti nella mia mansarda. Era una tiepida giornata primaverile. Fuori si sentiva già il soffio caldo dell’estate. Aprii l’Inferno. Saltai tutta l’introduzione (una buona cinquantina di pagine). Cominciai a leggere, un po’ tremolante al pensiero di aver già violato ogni regola e ogni convenzione. «Nel mezzo del cammin di nostra vita…». Mi bloccai. Ripetei il primo verso, snocciolando meglio l’intonazione che secondo me si era arenata priva di slancio. «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Affrontai quindi il secondo verso, «mi ritrovai per una selva oscura». Tentennai. Trovai l’ardire di scendere di un rigo per inseguire la rima, «ché la diritta via era smarrita». Ebbi una sensazione strana. Presi allora la rincorsa e mi lanciai oltre il precipizio. Lessi il canto tutto d’un fiato. Quando arrivai alla fine non sapevo che cosa avessi letto. Mi sentivo solo leggermente frastornato. Mi diressi perciò alla finestra e la spalancai. Un’afa soffocante impregnava l’aria. La lasciai entrare. La calma immobile di un pomeriggio del ’00 mi scivolò addosso. Dopo qualche secondo, tornai a posto. La Commedia era sempre lì, aperta a metà; le pagine confuse, mosse appena da una brezza fiacca. Nello sfogliarla per riprendere da dove mi ero interrotto, realizzai che qualcosa in me era cambiato. In quel momento io non ero più lo stesso di prima. Una sottile vertigine si era affacciata sotto l’epidermide, come dopo la più incredibile delle scoperte. Dentro il mio animo si era accesa di colpo una scintilla. All’improvviso tutto era divenuto più chiaro. Provai una gioia violenta. Ricordo che rilessi di nuovo tutto il canto. Lo rilessi talmente tanto che alla fine senza rendermene conto lo avevo imparato a memoria. Fremetti dall’ebrezza e compresi, in maniera istintiva, ciò che a lungo mi era stato incomprensibile. Non volli dirlo – e infatti non lo feci. Tenni quel segreto tutto per me.
Mi tuffai nella lettura senza paura, anzi, con una spaventosa dose di incoscienza. Permisi a Dante di parlarmi, mentre io scoprivo come dovessi leggerlo. Compresi quel giorno di aver trovato la mia voce. Era la mia, quella di un adolescente che si stava confrontando con un libro scritto settecento anni prima. Stava avvenendo una magia che non sapevo spiegarmi. Come poteva essere possibile quell’immediatezza, se la sacralità di quell’uomo me lo aveva reso sempre tanto ostile? Dante mi stava parlando e io ero lì buono ad ascoltarlo. Tra noi si era stabilito un canale. Non esitai nemmeno quando nei giorni successivi giunsi ai canti più lirici. Forse perché temiamo di non far loro giustizia. E questo, va detto, è secondo me un lascito amaro dell’educazione scolastica e spesso abbastanza grosso da scoraggiare una seconda lettura. Io non mi feci problemi. Declamai, col dito tra le pagine come Don Abbondio col suo breviario, la dichiarazione di amore di Francesca, la difesa onorevole di Farinata, il superbo racconto di Ulisse e la lacrimevole confessione di Ugolino. Mi commossi, mi arrabbiai, mi inorgoglii. Cominciai a chiedermi le cose che si sono chiesti tutti (ma perché quel frescone di Ulisse è partito, dopo averci messo una vita per tornare a casa!?). Cominciai a camminare nella foresta delle allegorie dantesche e a intuire la presenza di profonde verità. Ero tuttavia all’inizio del viaggio. Seguivo il suo straordinario racconto e man mano realizzavo quanto fosse diverso da come me l’ero immaginato. Mi sentii preso in giro. L’opinione che mi stavo formando era completamente diversa da quella che il ‘sistema’ pretendeva di inculcarmi. In quel momento, Dante stava diventando il mio Dante. Ciononostante, sembrava che bisognasse a tutti i costi tirarlo dalla tunica e fargli dire ciò che tornava più comodo, o peggio, affibbiargli un’etichetta: Dante il cattolico, Dante il tomista, Dante lo stilnovista, Dante il fedele d’Amore, Dante il guelfo ribelle, Dante il ghibellino intransigente, Dante l’anti-fiorentino, Dante lo schiaccia-papi, Dante l’idolatra-imperatori, Dante il fustigatore dei corrotti, Dante l’esecratore dei costumi, Dante il taciturno, Dante l’asceta, Dante il profeta ecc. Come se Dante potesse essere una sola di queste cose e basta. Come se, per includerlo in un manuale di italiano, fosse necessario semplificarlo, ridurlo, storpiarlo. Invece no, realizzai che Dante non si può – e non si deve – semplificare. Perché Dante è un mondo. E il mondo non si semplifica: si ammira nella sua straordinaria immensità…
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