Ancora Dante…

Qualche tempo fa mi è venuta un’idea per un libro. Più che un romanzo si tratta di una specie di prontuario. Non voglio svelare il contenuto ma il protagonista è – e rimane sempre – Dante. La sua saggezza. Il suo mondo. Il suo Spazio. Ci sto lavorando; non sono che all’inizio. Sarà lunga, quindi non ho alcuna idea su quando sarà finito. Potrebbe anche darsi che mi interrompa a metà e inizi qualcos’altro. Faccio spesso così. Colpa della mia perenne insoddisfazione. Intanto però vi regalo qualche riga tratta dall’Introduzione (più o meno al centro). Accontatevi.

Dell’Alighieri ho un sempre conservato un ricordo particolare. Un ricordo che negli anni si è trasformato in affetto. Sino a diventare amore. Folle. La prima testimonianza di cui io abbia memoria è una Divina Commedia con le incisioni di Gustave Doré; un librone massiccio che non veniva sfogliato quasi mai e per ovvie ragioni. Lo tenevamo lì, in salotto, per incutere timore agli ospiti, ma nessuno si azzardava a tirarlo giù. Sormontava il mobile, come uno stilita imperscrutabile, arroccato sulla sua torre d’avorio. Mi era bastata un’occhiata per capire che si trattava di qualcosa di serio. In copertina avevano messo l’illustrazione del XXIV canto: dannati e serpenti intrecciati tra loro in un grandguignol di sangue e fiamme. Ne ebbi presto una gelida repulsione. Poi, allorché mi fu permesso aprirlo («sì, ma non rovinarlo!», «mi raccomando, non fare le orecchie alle pagine!»), capii che non era un libro da leggere. I canti erano stati stampati per il lungo, in una serie di colonne infinite, senza paragrafatura e senza pause. Quello che altrove era l’unica chiave di accesso, ovvero le note, erano state ridotte all’osso. In questo modo sì, la Divina Commedia era stata restituita alla sua originaria purezza, ma il lettore più ingenuo e più sprovveduto, come il sottoscritto a dieci anni, poteva solo rassegnarsi a trovare un po’ di sollievo nei disegni tra i quali, tra budella pencolanti e capi mozzati, ahimè, c’era poco di cui soddisfare la sua curiosità. Senonché appunto, i disegni stiracchiati da un angolo all’altro in quei paginoni di grana fina, insieme alla loro tetra cifra artistica, costituiscono quel che fu allora il mio primo incontro con Dante.

Per arrivare al testo, dovetti prima ritrovarmi tra le mani una di quelle edizioni scolastiche, uno di quei mattoni dove devi sorbirti vita dell’autore, bibliografia ragionata, antologia delle opere minori, sinossi, schemino con l’imbuto, la montagna, i dischetti. Quindi il riassunto per canti e la traduzione in italiano moderno. Poi, alla fine, forse, il testo. Alleluia. Il tutto affogato in un semifreddo di note a piè di pagina che rimandano all’infinito la lettura. Sia chiaro: non sono contrario per principio. Ma ciò rischia di frapporre un divario insuperabile tra lo studente e lo ‘studiato’. Vale a dire, tra la parola e il suo lettore. Una simile mole di informazioni, se da un lato appunto informa, può suscitare, di contro, una certa avversione, seguita, nel peggiore dei casi, da orticaria e paralisi degli arti. Immaginiamo di andare al cinema. Ci sediamo nella nostra comoda poltrona, i popcorn ancora caldi, che centelliniamo, nella speranza di gustarceli insieme all’inizio del film. Siamo ansiosi che lo spettacolo per il quale ci siamo strappati al calore di casa nostra valga la pena. A un certo punto, finalmente, lo schermo si illumina e davanti a noi compaiono, in ordine: il trailer di un film che uscirà tra due anni, le pubblicità di auto, di un parco divertimenti, di mobili arancioni, il trailer di un film che uscirà tra cinque anni, una réclame di giocattoli, di un barbecue da salotto, un catalogo di mariti in affitto, di case su Marte; quindi, un terzo trailer, questa volta di un film che non uscirà proprio, infine una pubblicità dello stesso cinema in cui siamo seduti. E così per venti minuti. Sarebbe un’esperienza atroce. Usciremmo da lì col fermo proposito di non metterci mai più piede. Diremmo a noi stessi: ‘Questa è l’ultima volta che ci vado!’, con un senso sgradevole di essere stati fregati. Si pensi a cosa può provare uno studente del primo anno davanti all’edizione scolastica della sua Commedia nuova di zecca. La sfoglia e non vede altro, tra date e nomi, che elenchi di figure retoriche che paiono malattie infettive. È logico che appena può si butta sui riassunti. Alla mia epoca andavano ancora molto forte i bignami. Ma leggere Dante sui bignami è come limonare con la fotografia di chi ci piace. Non dà lo stesso piacere. Però, mi rendo conto, si tratta in certi casi di un male necessario, e l’amaro calice alla fine ce lo dobbiamo scolare fino all’ultima goccia, col risultato però che, chiuso l’ultimo canto, la nostra bella edizione scolastica, ora tutta pasticciata di appunti, rischia di finire a fare compagnia ai miei costumi medievali: in fondo a uno scatolone.

Un po’ questa è stata la mia esperienza. Anno dopo anno. Mi è toccato studiare Dante. Dico ‘toccato’ proprio per indicare il valore passivo della mia esperienza e poi perché esperienza di solito rima con sofferenza. Studiare Dante non era infatti, in quel periodo, un piacere. Era un obbligo, a cui io, come tutti i miei coetanei, eravamo costretti. Era un argomento che il nostro beneamato sistema scolastico includeva nei programmi ministeriali. Si partiva sempre con Dante. Talvolta si faceva Dante per tutto l’anno, mentre magari eravamo già arrivati a Quasimodo. Nel frattempo, c’era sempre lì Dante, spiegazzato nel sottobanco; e noi, faticosamente, arrancavamo, provati dall’Inferno (che si studiava meglio), stremati dal Purgatorio (di cui a malapena si leggevano i canti di Manfredi e di Sordello), storditi dall’incomprensibilità del Paradiso, sul quale ci soffermavamo giusto il tempo della preghiera alla Vergine (non la nostra, pure intensa, ma mai bella quanto quella di San Bernardo!), perché l’anno, come il nostro entusiasmo, era giunto agli sgoccioli e noi non vedevamo l’ora di liberarci una volta per tutte del divin fardello.

Ce lo spiegavano, anzi più che altro ce lo infliggevano. Almeno che io mi ricordi. Rammento la gravità dignitosissima con cui si iniziava il discorso su Dante. Il professore si raccoglieva in religioso silenzio, congiungeva i polpastrelli e si prendeva una lunghissima pausa di riflessione. Manco dovesse risvegliare uno spirito dell’oltretomba. E quindi, già da quel preambolo, Dante rifulgeva ai miei occhi di un bagliore sinistro. Nel giro di qualche lezione si era ormai dissolto in un’eminenza grigia, in un pomposo profeta, immateriale e disumano. Col risultato che nemmeno in quel modo riuscivo a farmelo piacere. Mi domando ancora oggi perché. La mia risposta oscilla tra la facile tentazione di dare la colpa ai professori, e quella, meno facile, di prendermela con la mia più plausibile superficialità. D’altronde, spiegare Dante non è impresa da poco. Spiegarlo a un tredicenne è dunque forse impossibile. C’è troppa fretta e troppo poco tempo per calibrare un’introduzione che non sia troppo artificiosa e che sappia mantenere viva una già debole fiammella di curiosità. Per fortuna, giocò a mio favore una certa inclinazione agli studi umanistici, la quale, sebbene soffocata da un’altrettanto naturale inclinazione al cazzeggio spinto e al disinteresse più totale, alla fine è servita a salvarmi (almeno in parte) dal baratro seducente dell’asineria. Quel che non facevo a scuola, lo recuperavo nel tempo libero. A scuola friggevo di noia, le esegesi mi annoiavano, poiché le ritenevo pedanti. Uccidevano l’ispirazione e come Crono inghiottivano il trasporto. Per me Dante era la lettura ruggente di Gassman e quella sudatissima di Benigni. Il Dante scolastico mi pareva la lugubre ed ecclesiastica solmisazione di un democristiano della prima ora, che si fosse messo a fare poesia come risultato della sua incapacità di stare al mondo. Io volevo sentir vibrare delle corde che i professori si rifiutavano di toccare; mi aspettavo un saliscendi di emozioni che non arrivavano mai. Vedi il canto di Ulisse. Lo vivisezionavamo, con lentezza, verso dopo verso, terzina dopo terzina. Avrei lanciato in aria il dizionario, se solo avessi potuto urlare io «O frati!» fino a sentirmi bruciare la gola, e sussultare il petto dinanzi all’inabissarsi della nave. Ma quale folle volo, quali frati… Ulisse moriva tragicamente per aver peccato di superbia e a me invece sembrava il pigro congedo di un impiegato del catasto. Per non parlare di Ugolino, che imprigionato nella torre della Muda, rassomigliava nella sua tormentosa indecisione più che a un Macbeth, a un personaggio di Woody Allen, che non sappia mai bene cosa fare. Allora presi a leggere Dante per i fatti miei. Gli concessi un appello privato. Ero desideroso di capire perché ci accanissimo tanto, quale fosse l’origine della nostra goffa ossessione nei suoi confronti. Anche se, all’apparenza, quel piccolo ometto, dal naso lungo e adunco, e lo sguardo torvo, emanava tutt’altro che simpatia. Ci doveva essere un motivo per cui la gente lo venerava. E volevo capire se fosse finzione o realtà. Qual era il suo segreto, che nemmeno sette secoli erano riusciti a scalfire? La sua luce brillava con una forza che non aveva pari in nessun altro poeta, nascosta in un poema melmoso quanto insondabile, che trascinava giù tutti noi, studenti sfigati, mentre seguivamo in quelle sabbie mobili guide poco avvezze a districarsi, e a spingere – quando necessario – all’esplorazione solitaria.

Così mi sedetti nella mia mansarda. Era una tiepida giornata primaverile. Fuori si sentiva già il soffio caldo dell’estate. Aprii l’Inferno. Saltai tutta l’introduzione (una buona cinquantina di pagine). Cominciai a leggere, un po’ tremolante al pensiero di aver già violato ogni regola e ogni convenzione. «Nel mezzo del cammin di nostra vita…». Mi bloccai. Ripetei il primo verso, snocciolando meglio l’intonazione che secondo me si era arenata priva di slancio. «Nel mezzo del cammin di nostra vita». Affrontai quindi il secondo verso, «mi ritrovai per una selva oscura». Tentennai. Trovai l’ardire di scendere di un rigo per inseguire la rima, «ché la diritta via era smarrita». Ebbi una sensazione strana. Presi allora la rincorsa e mi lanciai oltre il precipizio. Lessi il canto tutto d’un fiato. Quando arrivai alla fine non sapevo che cosa avessi letto. Mi sentivo solo leggermente frastornato. Mi diressi perciò alla finestra e la spalancai. Un’afa soffocante impregnava l’aria. La lasciai entrare. La calma immobile di un pomeriggio del ’00 mi scivolò addosso. Dopo qualche secondo, tornai a posto. La Commedia era sempre lì, aperta a metà; le pagine confuse, mosse appena da una brezza fiacca. Nello sfogliarla per riprendere da dove mi ero interrotto, realizzai che qualcosa in me era cambiato. In quel momento io non ero più lo stesso di prima. Una sottile vertigine si era affacciata sotto l’epidermide, come dopo la più incredibile delle scoperte. Dentro il mio animo si era accesa di colpo una scintilla. All’improvviso tutto era divenuto più chiaro. Provai una gioia violenta. Ricordo che rilessi di nuovo tutto il canto. Lo rilessi talmente tanto che alla fine senza rendermene conto lo avevo imparato a memoria. Fremetti dall’ebrezza e compresi, in maniera istintiva, ciò che a lungo mi era stato incomprensibile. Non volli dirlo – e infatti non lo feci. Tenni quel segreto tutto per me.

Mi tuffai nella lettura senza paura, anzi, con una spaventosa dose di incoscienza. Permisi a Dante di parlarmi, mentre io scoprivo come dovessi leggerlo. Compresi quel giorno di aver trovato la mia voce. Era la mia, quella di un adolescente che si stava confrontando con un libro scritto settecento anni prima. Stava avvenendo una magia che non sapevo spiegarmi. Come poteva essere possibile quell’immediatezza, se la sacralità di quell’uomo me lo aveva reso sempre tanto ostile? Dante mi stava parlando e io ero lì buono ad ascoltarlo. Tra noi si era stabilito un canale. Non esitai nemmeno quando nei giorni successivi giunsi ai canti più lirici. Forse perché temiamo di non far loro giustizia. E questo, va detto, è secondo me un lascito amaro dell’educazione scolastica e spesso abbastanza grosso da scoraggiare una seconda lettura. Io non mi feci problemi. Declamai, col dito tra le pagine come Don Abbondio col suo breviario, la dichiarazione di amore di Francesca, la difesa onorevole di Farinata, il superbo racconto di Ulisse e la lacrimevole confessione di Ugolino. Mi commossi, mi arrabbiai, mi inorgoglii. Cominciai a chiedermi le cose che si sono chiesti tutti (ma perché quel frescone di Ulisse è partito, dopo averci messo una vita per tornare a casa!?). Cominciai a camminare nella foresta delle allegorie dantesche e a intuire la presenza di profonde verità. Ero tuttavia all’inizio del viaggio. Seguivo il suo straordinario racconto e man mano realizzavo quanto fosse diverso da come me l’ero immaginato. Mi sentii preso in giro. L’opinione che mi stavo formando era completamente diversa da quella che il ‘sistema’ pretendeva di inculcarmi. In quel momento, Dante stava diventando il mio Dante. Ciononostante, sembrava che bisognasse a tutti i costi tirarlo dalla tunica e fargli dire ciò che tornava più comodo, o peggio, affibbiargli un’etichetta: Dante il cattolico, Dante il tomista, Dante lo stilnovista, Dante il fedele d’Amore, Dante il guelfo ribelle, Dante il ghibellino intransigente, Dante l’anti-fiorentino, Dante lo schiaccia-papi, Dante l’idolatra-imperatori, Dante il fustigatore dei corrotti, Dante l’esecratore dei costumi, Dante il taciturno, Dante l’asceta, Dante il profeta ecc. Come se Dante potesse essere una sola di queste cose e basta. Come se, per includerlo in un manuale di italiano, fosse necessario semplificarlo, ridurlo, storpiarlo. Invece no, realizzai che Dante non si può – e non si deve – semplificare. Perché Dante è un mondo. E il mondo non si semplifica: si ammira nella sua straordinaria immensità…

L

“Dante Enigma”: un’occasione mancata

E’ da pochissimo in libreria Dante Enigma, del rampante Matteo Strukul, scrittore che non è alla sua prima prova con la Storia, essendo l’autore – sempre per i tipi di Newton Compton – della saga “I Medici”. Il libro su Dante è stato preceduto da un pesante battage pubblicitario e lo stesso autore, sulla sua pagina Instagram, ha più volte anticipato il libro, in vista dell’uscita prevista il 3 maggio.

Copertina di Dante Enigma di Matteo Strukul

L’ho appena finito e devo dire che la mia posizione a riguardo è piuttosto combattuta. Come probabilmente avrete scoperto leggendomi e leggendo qualcuno dei miei vecchi post, sono un dantista convinto e un medievista di formazione (ormai a tempo perso). Questo mi ha portato a leggere il romanzo di Strukul con una certa dose di diffidenza e, temo, malcelato scetticismo, fin dalle prime pagine. Consapevole di avere quindi una lente deformante sotto gli occhi, vorrei comunque dire la mia, sapendo già che la mia recensione non sarà obiettiva al 100%. Vediamo intanto di che parla il libro.

Dante Enigma segue le vicende di un Dante ancora ragazzo, ambientandole tra il 1288 e il 1289. A quest’altezza, Dante Alighieri, poco più che ventitreenne, si trova coinvolto nei preparativi per la famosa battaglia di Campaldino, che ha luogo l’11 giugno 1289, tra la guelfa Firenze e la ghibellina Arezzo. Il libro segue da vicino l’evoluzione in senso negativo degli eventi, fino a che le relazioni tra le due città si deteriorano a tal punto che il conflitto armato diventa inevitabile. La battaglia di Campaldino è una tappa importante nella vita di Dante e lui stesso ne parla in più di un’occasione. Dante vi partecipò come feditore a cavallo, cioè come combattente in prima linea. Possiamo soltanto immaginare quanto quel giorno contribuì a influenzare il suo carattere. Della battaglia di Campaldino, Dante fa infatti menzione in più di un luogo della Divina Commedia, per esempio quando racconta l’avventurosa morte di Bonconte da Montefeltro (nel VI del Purgatorio), avvenuta proprio quel giorno a Campaldino, e ne parla anche in svariati altri punti dell’Inferno.

Al di là dell’aspetto storico, Strukul ricostruisce (“romanzandoli” ovviamente) i dialoghi, con il suo tipico piglio mordace, per i quali è conosciuto, rendendo appieno il ritmo, che sembra farsi sempre più frenetico. Strukul è uno scrittore di vaglia, uno che conosce bene le sue fonti, che sa usare per sorreggere la storia, quando gli occorre introdurre elementi di fantasia alternando cose vere a cose che vere non sono. Ho apprezzato molto la scena della battaglia. Qui secondo me è venuta fuori tutta l’esperienza del romanziere storico. Il lessico è accurato, la descrizione convincente, e l’architettura intreccia bene le singole scene con le inquadrature di massa, i cosiddetti piani lunghi. Bella anche la conclusione, che riunisce nella storia principale ciascuna delle sottostorie, portandoci a vivere con un senso di sollievo il ritorno della pace, laddove si prima si era scatenata la tempesta. Quindi per riassumere: bello, bella la boisserie, bello tutto… Ma veniamo a cosa non ha funzionato granché.

Matteo Strukul, nato a Padova l’8 settembre 1973

Dante Enigma rimane per me un enigma. Come ho detto, il libro è ben documentato, nulla da eccepire, ma se proprio si voleva scomodare un periodo come quello giovanile del Sommo Poeta, forse si poteva scendere un po’ più sotto la superficie. In che senso? Cerco di riassumere. In quegli anni della vita di Dante, si sviluppano intorno a lui una serie di questioni, personali, filosofiche, perfino “esoteriche”, che ritornano più avanti, quando il poeta, ormai in esilio, si dedica alla stesura della Commedia.

Un aspetto che sicuramente molti conoscono è il rapporto “travagliato” tra Dante Alighieri e Guido Cavalcanti. Qualcuno ricorderà il sonetto Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io e forse qualcuno ricorderà anche che è a Guido che Dante dedica la Vita Nova, così come è a Guido che Dante dedica la sua prima poesia. Insomma, i due erano molto amici. Poi più avanti avranno dei diverbi, per cui si allontanano (Guido Cavalcanti muore nel 1300, ndA), ma nel 1288, cioè quando viene ambientato il romanzo, Dante e Guido sono ancora profondamente legati. Eppure, di questo rapporto non viene fatta quasi menzione. Sarà stata magari una scelta redazionale, sarà che l’aspetto privato di Dante avrebbe potuto “rallentare” l’evoluzione della storia, tutta incentrata sulla battaglia. Però mi sarei aspettato qualche riferimento in più. Ne avrebbe guadagnato, credo, lo spessore del protagonista, oltre a darci modo di conoscere meglio la sua quotidianità, fatta a quel tempo di tanta ambizione ma ancora di pochi successi.

Tralascerò il discorso sull’aspetto filosofico e quello esoterico perché sarebbe un discorso troppo lungo. Dirò soltanto che, volendo, si poteva integrare il racconto con elementi un po’ più suggestivi, quali roghi, processi e scene di vita quotidiana (taverne, bordelli, sale buie e fumose, avete capito che intendo), che per un romanzo “medievale” non guastano mai. Ma Strukul ha preferito – giustamente – mantenersi fedele alla storia e quella ha sviluppato, con coerenza e mano ferma, senza lasciarsi ammaliare dalla tentazione del gotico, tante volte usato (e abusato).

Un’altra cosa che ho trovato strana è la presenza di tanti mini capitoli. A volte ci si ritrova dei capitoletti di due, tre pagine al massimo, nei quali viene davvero sviluppato poco. Più che disperdere il racconto in cosi tanti capitoli, avrei personalmente optato per accorparli e farne invece capitoli più grossi. Penso che l’intenzione sia stata di dare, come dicevo, ritmo alla narrazione, però così il rischio è di abbozzare qualcosa senza avere il tempo di approfondirlo a sufficienza.

Strukul poi si avventura su un terreno originale che è quello della pura invenzione. Sacrifica di fatti il rapporto Dante – Guido ma letteralmente “inventa” (perché non esistono prove contrarie) l’amicizia tra Dante e Giotto. L’unico elemento che autorizza l’invenzione è il fatto che entrambi si trovavano a Firenze nel 1290, benché poi abbiano preso strade separate. Da qui però il romanzo prende l’aire per ipotizzare che Giotto conoscesse – e bene per giunta – il giovane poeta, per il quale si scopre aver fabbricato la spada utilizzata da Dante durante la battaglia. Insomma, complimenti per il coraggio!

Un’altra invenzione, che non so se far rientrare tra le note positive o quelle negative, è la conferma – sempre romanzata – che Dante soffrisse davvero di attacchi epilettici (c’è solo un vago accenno nella Vita Nova…). Questi attacchi, che si verificano sovente nel corso del racconto, sono il pretesto per far avere a Dante le visioni “mistiche” rielaborate e confluite poi nella Commedia (per esempio quella di Lucifero, della città di Dite, delle Erinni). Ne apprezzo molto l’idea alla base e mi chiedo se sono io a non averne capito il senso (molto probabile) perché, francamente, non le avrei incluse, perché avrei tenuto separato il periodo giovanile da quello maturo. Comunque, al netto, sottolineo di nuovo l’orginalità e il coraggio di trattare la figura del più grande poeta italiano come vera e propria argilla da plasmare.

In conclusione, il mio giudizio è che si poteva fare meglio. Per carità, la storia regge, il libro è scorrevole. Ma non è quel capolavoro che mi aspettavo quando l’ho aperto la prima volta. Non voglio però togliere nulla all’autore, che ha sicuramente confezionato un romanzo pregevole. Come sostenevo all’inizio, il mio parere è molto probabilmente influenzato dalla devozione quasi sacra che nutro per quel periodo storico e per la figura di Dante, a cui più volte mi sono avvicinato, sempre da incapace, con l’intento di scrivere qualcosa, anche solo uno scampolo, un brandello, un lacerto, rendendomi poi conto di non sapere da dove cominciare. A questo punto mi viene il sospetto di essere io il vero impostore e di aver volutamente trovato dei difetti per arrogarmi il diritto di non farmi piacere qualcosa scritto da qualcun altro. Il critico invidioso è sempre il critico peggiore (ma anche quello più sincero), perché non nasconde di aver voluto essere lui a scrivere la storia che ha letto. Confido a mia volta nel giudizio benevolo dei posteri. Buon piovoso abbraccio a tutti.

L

‘Dante’s Inferno’ made in USA

La Freeform, emittente via cavo statunitense, ha avuto la brillante idea di sviluppare una serie televisiva basata sull’Inferno di Dante, ambientandola ai giorni nostri. Il centro dell’azione non sarà più Firenze ma Los Angeles, dove si svolgeranno le vicende di Grace Dante, 20enne dalla vita travagliata, divisa tra un fratello problematico e una madre dipendente dalla droga. La giovane rinuncerà a tutto, vita, carriera, sogni ecc per occuparsi della sua famiglia disastrata, vivendo quindi un vero e proprio inferno quotidiano. Questa a grandissime linee l’idea della serie.

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Don Draper (interpretato dall’attore Jon Hamm) legge l’Inferno nella serie “Mad Men”

Se da un lato mi fa certamente piacere che in America si interessino a Dante, dall’altro non posso nascondere un certo fastidio nel sapere che la Commedia verrà fatta a pezzi e data in pasto a un pubblico poco incline a sottigliezze linguistiche, storiche e tantomeno teologiche. D’altronde, già Woody Allen diceva tempo fa che gli americani non gettano mai via i loro rifiuti ma li trasformano in show televisivi. Quindi il pensiero corre veloce all’umorismo sguaiato e alla risata facile, al trash proposto in tutte le salse dei talk-show d’oltreoceano dove genitori redneck si menano davanti ai figli per fare audience e gli chef urlano in cucina che manco i sergenti istruttori alle reclute, alla mancanza di educazione artistica e alle lacune culturali dei quiz a scelta multipla per adolescenti coi denti bianchi e i capelli perfetti che magari vogliono solo fare i quaterback o le cheerleader perché è più figo che studiare letteratura europea. Allora mi rendo conto che i miei forse sono solo stereotipi e che invece gli americani non sono più come si vedono nei loro stessi telefilm, che non sono tutti surfisti californiani, teenager bullizzati, nerds, aspiranti supereroi, potenziali serial-killer e cose simili. Forse si stanno aprendo al resto del mondo e per mondo intendo il Vecchio Mondo: l’Europa. In fondo noi (gli italiani) li abbiamo scoperti (loro, gli americani), e quindi un po’ di rispetto ce lo devono, dato che da sempre ci prendono per il culo con i Mamma Mia! caricaturati, i gesti delle mani fatti a casaccio, la pizza con l’ananas, il vino bevuto a metà pomeriggio in giardino, i film dove gli italiani sono tutti o mafiosi o latinlover (molti di noi suonano anche il mandolino). Che scoprano invece la nostra cultura millenaria fatta di Dante, Leonardo (non Dicaprio) e Michelangelo (non quello di Dan Brown), ma soprattutto la smettano di fare il bagno nella Fontana di Trevi e andare in giro per Roma in Vespa. Allenino il palato ai sapori delicati della nostra tavola e agli aromi stagionali che nulla hanno a che vedere con gli hamburger, i tacos, i chipotle, il burro di arachidi, il caffè allungato in tazza grande, gli spaghetti con le polpette o, peggio, alla bolonnaise come lo chiamano loro (mi viene orrore solo a pensarci!), il parmesan e chi più ne ha più ne metta. Se mi maltrattano Dante sarà guerra senza quartiere. State attenti, sono cintura nera di stereotipi.

L

Primo Levi e Dante all’inferno – Parte III

Faceva tiepido fuori, il sole sollevava dalla terra grassa un leggero odore di vernice e di catrame che mi ricordava una qualche spiaggia estiva della mia infanzia. Pikolo mi diede una delle due stanghe, e ci incamminammo sotto un chiaro cielo di giugno. Cominciavo a ringraziarlo, ma mi interruppe, non occorreva. Si vedevano i Carpazi coperti di neve. Respirai l’aria fresca, mi sentivo insolitamente leggero…

E’ mattina presto. Ha appena albeggiato. Primo Levi si sta avviando insieme a Jean verso una cisterna interrata per svolgere il compito della giornata. Per qualche strana ragione ha il cuore leggero e nulla in quelle poche righe può far presagire l’orrore che circonda i due personaggi. Sembra di leggere il racconto di una domenica in montagna, tra amici. Primo e Jean, quasi coetanei, seppure in posizioni sociali diverse nel campo (più in basso Primo, molto più in alto Jean) sono accomunati dallo stesso interesse per la vita e per il mondo che li aspetta là fuori. Si concedono timidamente il lusso di sperare. Parlano di letture, di lingue, di cose belle insomma. A un certo punto un pensiero attraversa la mente del giovane chimico torinese. Gli viene voglia di parlare di qualcosa di sacro, qualcosa che stride così forte in quel momento e in quel luogo:

… Il canto di Ulisse. Chissà come e perché mi è venuto in mente: ma non abbiamo tempo di scegliere, quest’ora già non è piú un’ora. Se Jean è intelligente capirà. Capirà: oggi mi sento da tanto.

… Chi è Dante. Che cosa è la Commedia. Quale sensazione curiosa di novità si prova, se si cerca di spiegare in breve che cosa è la Divina Commedia. Come è distribuito l’Inferno, cosa è il contrappasso. Virgilio è la Ragione, Beatrice è la Teologia. Jean è attentissimo, ed io comincio, lento e accurato:

Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella cui vento affatica.
Indi, la cima in qua e in là menando
Come fosse la lingua che parlasse
Mise fuori la voce, e disse: Quando…

Primo Levi si ferma e traduce le due terzine come può, fidandosi del suo francese scolastico e sperando che l’agile mente di Jean faccia il resto. In qualche modo il messaggio di Dante passa. Jean si accorge che quelle poche parole in italiano vogliono dire qualcosa di stupefacente. Entrambi si accorgono che per un’assurda magia sono riusciti a portare la poesia nel Lager. E non una poesia qualsiasi. Quella di Dante, quella dell’Inferno. Nell’inferno appunto. Primo Levi prosegue, si tortura per continuare il canto, per far sapere a Jean cosa dice Ulisse, che cosa avviene di lui e dei compagni.

E dopo «Quando»? Il nulla. Un buco nella memoria «Prima che sí Enea la nominasse». Altro buco. Viene a galla qualche frammento non utilizzabile: «… la piéta Del vecchio padre, né’l debito amore Che doveva Penelope far lieta…» sarà poi esatto? … Ma misi me per l’alto mare aperto. Di questo sí, di questo sono sicuro, sono in grado di spiegare a Pikolo, di distinguere perché «misi me» non è «je me mis», è molto piú forte e piú audace, è un vincolo infranto, è scagliare se stessi al di là di una barriera, noi conosciamo bene questo impulso. L’alto mare aperto: Pikolo ha viaggiato per mare e sa cosa vuol dire, è quando l’orizzonte si chiude su se stesso, libero diritto e semplice, e non c’è ormai che odore di mare: dolci cose ferocemente lontane.

Sono ormai oltre i due amici. Hanno valicato con l’immaginazione la gelida recinzione del Lager e stanno solcando le onde sulla nave di Ulisse, col vento che sferza il volto e il sole che scalda la pelle. Non sono più due reietti, condannati dalla malvagità dei tempi a morire troppo presto. Sono ormai due marinai, fidi sodali in un’avventura di cui serberanno per sempre la memoria.

«Mare aperto». «Mare aperto». So che rima con «diserto»: «… quella compagna Picciola, dalla qual non fui diserto», ma non rammento piú se viene prima o dopo. E anche il viaggio, il temerario viaggio al di là delle colonne d’Ercole, che tristezza, sono costretto a raccontarlo in prosa: un sacrilegio.

Il lavoro è passato sullo sfondo, così come la bruttezza del luogo in cui i loro corpi sono rimasti. La poesia di Dante Alighieri li ha elevati ad altre vette e su altre cime irraggiungibili, da cui possono ora contemplare con distacco lo scempio del nazismo. Primo Levi e Jean sono altrove, in un altro luogo e in un’altra epoca. La bellezza così come la cultura unisce e non divide. Non ha bisogno di lingue per trasmettersi. Contagia, ma come un virus che rafforza invece di indebolire. Gli uomini grazie alla poesia ridiventano Uomini. Ed è quindi in uno stato di pressoché illuminazione che Primo Levi snocciola la terzina più famosa del canto. La magia si compie. Jean ascolta estatico comprendendo che le sue quattro ossa, agitate da un soffio di vita, sono state portate dal vento dove pochi uomini hanno il privilegio di dirigersi, per non più essere dimenticati. Primo Levi e Jean sono per un attimo usciti dall’inferno.

Considerate la vostra semenza:
Fatti non foste a viver come bruti,
Ma per seguir virtute e conoscenza.


Come se anch’io lo sentissi per la prima volta: come uno squillo di tromba, come la voce di Dio. Per un momento, ho dimenticato chi sono e dove sono.
Pikolo mi prega di ripetere. Come è buono Pikolo, si è accorto che mi sta facendo del bene. O forse è qualcosa di piú: forse, nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio,
ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle.

<— Parte II

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Primo Levi e Dante all’inferno – Parte II

«Accende una pila tascabile, e invece di gridare «Guai a voi, anime prave» ci domanda cortesemente ad uno ad uno, in tedesco e in lingua franca, se abbiamo danaro od orologi da cedergli, tanto dopo non ci servono piú. Non è un comando, non è regolamento questo: si vede bene che è una piccola iniziativa privata del nostro caronte. La cosa suscita in noi collera e riso e uno strano sollievo »

Caronte nell’illustrazione di Gustave Doré

Primo Levi è appena salito sul camion che lo porterà dal treno ad Auscwhitz. Una guardia fa il giro raccogliendo gli oggetti personali dei deportati. Questo suscita in Levi il paragone con Caronte, il traghettatore di anime incontrato da Dante all’ingresso dell’Inferno. Il Caronte di Dante è una figura severa, rabbiosa, che incute quasi paura, mentre il soldato tedesco è paradossalmente mite, cosa che infatti sorprende sia Primo Levi sia gli altri insieme a lui. Con l’immagine ambigua di un nemico gentile comincia il viaggio verso il più terribile degli inferni.

Un altro aspetto che sorprenderà Levi, giunto ormai da qualche giorno nel campo, sarà il rovesciamento totale delle convenzioni umane e delle leggi civili. Una volta entrati ad Auschwitz non vigono più quelle regole. Al di qua del filo spinato non esiste rispetto, non esiste compassione, non si aiuta il più debole, che sia vecchio, donna o bambino. Nel Lager si è anni luce lontani dal senso di fratellanza. Se al di fuori gli uomini vivono per aiutarsi, nel campo di concentramento si vive come se ci si trovasse in una bolgia infernale. Il Male, impersonato dalle guardie, è come quello descritto da Dante. I diavoli delle bolge trasfigurano assumendo l’aspetto delle guardie del Lager.

« La spiegazione è ripugnante ma semplice: in questo luogo è proibito tutto, non già per riposte ragioni, ma perché a tale scopo il campo è stato creato. Se vorremo viverci, bisognerà capirlo presto e bene:… Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio! »

Man mano che percorre le bolge e scende verso il centro dell’Inferno, Dante dice che c’è sempre meno luce, ovviamente la luce del Bene. Allo stesso modo Primo Levi scopre presto che nel campo di concentramento bisogna fare i conti con il buio, cioè con la mancanza di pietà, ma non la pietà finta di chi si aspetta qualcosa in cambio, bensì quella spontanea che fa tendere la mano a chi cade e non ha più le forze per rialzarsi. Bisogna cercare di accettare il pensiero reale del dolore e la possibilità concreta della morte e imparare a convivere con la paura di essere uccisi. Levi lo mette subito in chiaro, prima a se stesso, come lezione, poi a noi, perché ne siamo testimoni nel nostro mondo e nel nostro tempo. Egli sa che dovrà trovare il suo posto in mezzo a tanta ferocia, evitando i colpi, le botte, il freddo e la fame. Il suo universo finisce con la sua pelle e il suo pigiama a righe.

Il verso «Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio!» viene pronunciato da uno dei diavoli della bolgia dei barattieri ed è significativo perché nella scena immaginata da Dante, ci troviamo dinanzi ad un enorme lago di pece bollente. Qui vi finiscono i barattieri cioè coloro che avevano elargito favori in cambio di denaro. Per costoro emergere dalla pece anche solo per un secondo era un immenso sollievo. Tuttavia nel Lager-inferno la speranza e la compassione mancano. Nessuno può intercedere per un peccatore o per un recluso, nemmeno il Santo Volto (era un’icona sacra che si trovava a Lucca) dice il verso di cui Levi si ricorda improvvisamente mentre si fa strada stanco e infreddolito nel fango pesante del campo come un dannato nella pece. L’invenzione dantesca è potente, il parallelo azzeccato. La realtà purtroppo ha superato l’immaginazione, perché il dolore provato da Levi e dai suoi compagni è vero, arpiona le ossa come gli uncini dei diavoli quando qualcuno tentava di mettere fuori la testa per respirare. Allora i diavoli – che non facciamo fatica a immaginare vestiti di nero con in mano un fucile – li spingevano ancora più giù nel fondo del lago. Al dolore seguiva addirittura l’offesa, sbattuta sulla faccia da carcerieri disumani. In quel lago di pece, in quel mare di fango polacco, potevano pure scordarsi di sguazzare beati come facevano “da vivi” nelle acque del Serchio.

I Malebranche arpionano un dannato

Ma al di là degli espliciti riferimenti a Dante, la descrizione dei condannati del campo in Se questo è un uomo richiama continuamente la Divina Commedia. Non serve che Primo Levi ci dica “qui sto citando Dante” per accorgerci che i corpi lividi e smagriti che ogni giorno lentamente abbandonavano le baracche diretti in fabbrica, sembrano la processione degli indovini che avanzano nudi, in lacrime, con la testa girata verso la schiena, o il lento incedere degli ipocriti, coperti da cappe di piombo pesantissime. La stessa magrezza innaturale che scava le ossa e riduce il volto a uno scheletro era stata già immaginata da Dante ancor prima che la realtà terribile del nazismo la sperimentasse sugli esseri viventi. Nel Purgatorio, Dante si imbatte nei golosi, i quali non possono nutrirsi di nulla se non di acqua (si pensi alla zuppa acquosa del Lager che gonfia il ventre e allaga le arterie) e vengono tentati continuamente da un profumo di frutta che però non possono cogliere. Ecco un’altra punizione, l’illusione data dalla speranza: nulla fa più male che essere a un passo dalla salvezza e non potervi arrivare. L’aspetto dei golosi rispecchiava le privazioni a cui erano sottoposti nel loro girone secondo la fantasia di Dante che immagina che si possa leggere nel loro viso la parola OMO, uomo (come il titolo del racconto di Primo Levi). Le occhiaie sono due “O” e il setto nasale una “M”. Sembra la descrizione dei detenuti del Lager.

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, 
palida ne la faccia, e tanto scema, 
che da l’ossa la pelle s’informava.

[…]

Parean l’occhiaie anella sanza gemme: 
chi nel viso de li uomini legge ‘omo’ 
ben avria quivi conosciuta l’emme.  
                         

(Pur. XXIII, 22-33)            

Dante e Virgilio in presenza dei golosi nel XXIII del Purgatorio

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Primo Levi e Dante all’inferno – Parte I

Nessun luogo creato dall’uomo si è avvicinato tanto all’Inferno di Dante quanto i lager nazisti. Auschwitz, Birkenau, Dachau e gli altri luoghi dell’orrore disseminati tra Germania e Polonia hanno rappresentato un vero e proprio inferno terreno, un buco temporale e spaziale dove non è esistita pietà e soprattutto non è esistito amore. Per Adorno, dopo Auschwitz non dovrebbe essere più fatta poesia, come a dire che dopo Auschwitz l’umanità ha irrimediabilmente perduto qualcosa, si è guastato qualcosa che non può essere più aggiustato. Qualunque violenza commessa da un uomo su un altro uomo è stata superata dalle violenze inimmaginabili perpetrate nei lager. Primo Levi invece sosteneva che dopo Auschwitz si potesse sì fare poesia, ma soltanto su Auschwitz.

Donne e bambini ad Auschwitz

Il chimico di Torino fu deportato in uno dei tanti campi afferenti ad Auschwitz, il lager di Buna-Monowitz, anche noto come Auschwitz III, adiacente ad una fabbrica di gomma sintetica. Tutti conoscono Auschwitz e lo credono un unico campo, ma all’epoca con ‘Auschwitz’ si indicava un complesso di oltre venti lager, sparsi nelle campagne polacche, di cui Auschwitz non costituiva che il campo principale e più tristemente famoso. Ci potevano essere anche centinaia di chilometri tra un campo e l’altro. Levi vi entrò a ventiquattro anni, neolaureato in chimica all’Università di Torino e con una breve esperienza di partigiano alle spalle. Fu proprio la sua attività di partigiano a farlo finire sulla lista dei destinati ai campi di concentramento. Per qualche giorno il gruppo che doveva essere deportato fu raccolto dalle milizie fasciste a Fossoli, vicino Modena. Nessuno sapeva di preciso che cosa sarebbe successo e dove sarebbero stati trasportati, ma ciascuno di quei 650 prigionieri (prevalentemente di religione ebraica) aveva intuito che qualcosa di terribile aleggiava nell’oscurità. Il racconto della notte precedente la partenza fa stringere il cuore. Levi la ricorda nel primo capitolo di Se questo è un uomo.

Primo Levi da giovane

« Ognuno si congedò dalla vita nel modo che piú gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino voi non gli dareste oggi da mangiare? »

Coloro che sopravvissero al viaggio si trovarono catapultati in una realtà aberrante, dove nessuno era in grado di comprendere il feroce strillare dei carcerieri né tantomeno le infinite regole del campo, urlate in tedesco e in polacco. Solo a fatica, noi abituati alle nostre comodità, possiamo farci un’idea di quanto disorientati si possa essere dopo un viaggio durato giorni, senza acqua, cibo, sonno (a meno che non sappiate dormire in piedi o seduti nei vostri escrementi in mezzo a decine di persone) e poi improvvisamente scaricati chissà dove, in una spianata gelida, strattonati in uno stanzone nel quale tra le percosse ci si deve spogliare e lasciarsi radere a zero i capelli. Tuttavia Primo Levi si aggrappa ad una feroce voglia di vivere e piano piano acquista familiarità con la nuova e allucinante realtà del lager. In suo soccorso arriva pronto un ingegno vivo, curioso, nutrito fino a quel momento da due grandi passioni: la chimica e la letteratura.

Levi incasella, suddivide e archivia le sue emozioni e i ricordi di quasi un anno di prigionia alternando categorie scientifiche a categorie poetiche, grazie alle quali il racconto di ciò che avviene all’interno di qualche centinaio di metri quadrati di filo spinato suona a tratti come il freddo resoconto di un esperimento di laboratorio (similitudine che Levi stesso proporrà per descrivere gli effetti del piano di sterminio nazista). Cionondimeno, al gergo scientifico si accompagna anche un linguaggio poetico, prepotentemente lirico, in grado di farci commuovere e non solo di spiegarci minuziosamente cosa avveniva nel campo. Nessun altro poteva servire meglio allo scopo di raccontare la sua discesa negli inferi quanto Dante Alighieri. Primo Levi e Dante hanno condiviso la medesima esperienza del Male. Entrambi sono stati all’inferno, Levi in carne ed ossa, Dante con la fantasia, ma entrambi hanno disceso uno ad uno i gradi dell’aberrazione umana inoltrandosi negli angoli più bui della psiche. Il viaggio di Dante diventa quindi per il giovane chimico torinese l’unica cornice letteraria in grado di contenere il suo racconto della trasformazione dell’essere umano in bestia, quella che Primo Levi scorge nei volti scavati dei suoi compagni, che di giorno in giorno si svuotavano di speranza fino a diventare larve, gusci di pelle senza più un’anima: « Noi giacevamo in un mondo di morti e di larve. L’ultima traccia di civiltà era sparita intorno a noi e dentro di noi. L’opera di bestializzazione, intrapresa dai tedeschi trionfanti, era stata portata a compimento dai tedeschi disfatti. »

Un’illustrazione realistica dell’Inferno del disegnatore Gabriele Dell’Otto

Dante se non è citato direttamente, viene echeggiato continuamente da una serie continua di immagini infernali, dai diavoli della bolgia dei barattieri alle parole di Ulisse, a quelle dei vari mostri dell’Oltretomba. La somiglianza tra i due scrittori ruota perciò intorno al comune sdegno verso la prevaricazione del più forte sul più debole e verso la violenza in generale. Tra l’altro la storia personale di Primo Levi e di Dante è molto simile. Dante, ricordiamolo, pagò la sua sete di giustizia con l’esilio, ritrovandosi da un giorno all’altro strappato ai suoi cari e alla sua città e costretto a umiliarsi in giro per lande inospitali mendicando il pane. Primo Levi dovette fare i conti con un odio ancora più stolido perché dettato soltanto da razzismo. Il nemico di Dante e Primo Levi è quindi identico: la paura del diverso, di un pensiero diverso, di una religione diversa. Questa paura li ha resi vittime in fuga, prendendo corpo ai loro occhi in uno stato di incertezza costante, nella paura di non arrivare al giorno dopo, vale a dire nella paura che qualcuno potesse infliggergli da un momento all’altro il colpo mortale (nel Medioevo la condanna all’esilio comportava la liceità dell’assassinio a vista). Entrambi combatterono inermi contro un nemico senza volto, che li voleva ai margini, attraverso un lento processo di abbrutimento e de-umanizzazione che nei piani dei carnefici sarebbe dovuto culminare con la loro morte. Primo Levi ricorre a Dante come a un padre, ossia a qualcuno che si è trovato su quella strada prima di lui. Se questo è un uomo è così, per i lettori moderni, una nuova Divina Commedia, dalla quale però è totalmente assente la redenzione della specie ma non la lotta del singolo per la sopravvivenza.

CONTINUA… Parte II

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A sproposito di Dante

Ho appena finito di leggere un paio di libri a proposito – guardacaso – di Dante.

Il primo si intitola Dante. Una vita in esilio, di Chiara Mercuri. Il secondo Il Naso di Dante, di Pier Luigi Vercesi. La Mercuri mi pare che insegni Storia Medievale, mentre Vercesi è un giornalista. Iniziamo dal primo libro.

Edito da Laterza, l’ho trovato piuttosto fiacco, senza apporti originali o contenuti propri. Vuole essere una ricostruzione degli ultimi vent’anni della vita di Dante. Tuttavia, come il titolo invita a pensare, ci si aspetterebbe una ricostruzione delle origini e poi dello sviluppo dell’esilio di Dante, così come il Poeta l’ha vissuto: dov’è stato, chi ha visto, cosa lo ha ispirato. Perché durante l’esilio in fondo ha trovato la forza di scrivere la Divina Commedia. Invece la D.ssa Mercuri si limite a scrivere una biografia dal taglio pseudoadolescenziale, pieno di forzature retoriche, accentuando in maniera smodata il côté psicologico, cosa arbitraria perché ciascuno di noi si è fatto la sua idea di come Dante abbia percepito il suo esilio. In queste pagine viene ipotizzato un Dante affacciato alla finestra, trasognante la sua Firenze, o un Dante avvilito dalle miserie del mondo, che se ne va in giro per l’Italia a cavallo. Sono tutte belle suggestioni ma Laterza non pubblica romanzi. Dovrebbe essere un saggio (e non lo è) e vorrebbe essere un romanzo (e non è nemmeno questo).

Inoltre la scrittura lascia a desiderare. Come detto è piena di forzature retoriche che rendono la tesi difficile da sposare, perché viene sottolineata in continuazione, fino allo sfinimento. E’ una prosa rotta, poco fluida, che scorre raramente e che rende la lettura indigesta. Ecco, non è per addetti ai lavori. Potrebbe andar bene per qualcuno alle prime armi con l’argomento, poco ferrato in materie dantesche ma non per uno specialista o per qualcuno che abbia già letto di Dante. Veniamo al secondo libro.

Vercesi è molto più piacevole da leggere. Si concentra su una tematica di nicchia, ossia sul filone delle interpretazioni esoteriche. E lo fa in maniera assolutamente competente, riconoscendo il limite delle proprie conoscenze e il fatto che si possa facilmente scivolare in considerazioni personali e in giudizi di valore a seconda che si condivida o meno il soggetto. Invece Vercesi, da bravo giornalista qual è, mantiene uno sguardo distaccato, un taglio lucido. Racconta in una bella prosa una storia che collega le vicende di un negromante inglese, vissuto a Firenze verso la metà del 1800 che aveva creduto di parlare con l’anima di Dante, con altri mistici e sedicenti esperti. Si passa così a Gabriele Rossetti, a suo figlio Dante Gabriel, ai vari Aroux, Foscolo, Pascoli, René Guénon e così via, fino ai novecenteschi Valli, Perez e Asin Palacios. E’ una bella ricostruzione, pregevolmente confezionata e accuratamente preparata. Cionondimeno mi sentirei di spostarla nella categoria dei “dossier” giornalistici, più che tra i saggi, vista la provenienza dell’autore dal mondo del giornalismo, che si è cimentato questa volta con qualcosa di difficile, proprio perché molto settoriale, appannaggio di un certo tipo di critica dal palato sensibile.

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