È di questi giorni la notizia che il governo punta a stralciare il famoso decreto sul rientro dei cervelli. La misura, diventata nel frattempo celebre, ha aiutato tante persone a rientrare in Italia, perché prevedeva uno sgravio fiscale non indifferente, il che ha consentito a chi se n’era andato, di pianificare concretamente il rientro e magari, una volta rientrato, di comprare casa e mettere su famiglia.
Il governo ha pensato bene di opporsi, limitando da una parte il raggio di azione della misura e dall’altra diminuendo lo sconto. Dal 70% di sconto sul pagamento dell’IRPEF si dovrebbe passare al 50%. Quindi in pratica la metà. Questo se la norma, approvata per ora in via preliminare, completerà il suo iter. Non serve dire che lo sdegno è esploso quasi subito. È stata perfino avviata una petizione su Change.org per provare a farli ragionare e a fargli capire che ci sono cosciotti ben più succulenti da addentare, piuttosto che un benefit striminzito, riservato a una fetta talmente piccola da non causare ammanchi tali da fare differenze sulla spesa pubblica. Ma, ovviamente, costoro si sono guardati bene dall’infilare il coltello dove avrebbero trovato la polpa.
Meglio secondo loro penalizzare i cervelli in fuga, scoraggiarli dal rientrare, vomitargli in faccia un mai del tutto soppresso e risentito sdegno, di chi si è forse sentito penalizzato dal non essersene mai andato, del tipo: “Restate dove siete che tanto qui non siete graditi!”. Ed è quindi indirettamente la conferma che a noi i giovani non piacciono. Penso, anzi, che debbano farci proprio schifo se hanno deciso di cancellare la misura. Una delle poche servite davvero a qualcosa, a spronare chi non si vedeva a vivere per sempre lontano e a fare di nuovo le valigie, sventolando un biglietto di solo… “ritorno” per ritrovare genitori e amici e a mantenere, quasi per intero, lo stipendio. L’Istat ci dice che, seppure microscopica, la norma nel solo 2021 ha fatto rientrare ben 74’000 persone.
È stata questa misura ad aiutare anche me, quando nel 2019, ho deciso di tornare in Italia. Grazie ad essa ho potuto sfruttare una pressione un po’ meno vampiresca e chiedere un mutuo che, almeno fino ad oggi, ho pagato. Sono stato fortunato, lo so. Ne sono consapevole. Perché ho beneficiato di quattro anni felici. Nel fondo del mio animo non mi illudevo che la cosa potesse durare. Sapevo che prima o poi avrebbero fatto la cazzata. Ce l’abbiamo nel DNA. Schifo dopo schifo avremmo eletto i peggiori, che avrebbero fatto giustizia dell’ingiusto, per usare le parole di Dante. Era solo questione di tempo.
In più ci tocca la beffa della quotidiana messa in gloria del populista, di colui che oggi è su tutti i giornali perchè si è fatto massacratore di espatriati. Tuttavia stavolta si è passato il segno. Mi unisco più che volentieri (“con questa mia”, direbbe Totò) al coro di chi è stufo di promesse da fine banchetto e ad un stolido elenco di buoni propositi. Quasi sempre disattesi, stravolti, ritrattati. Vedi, tra le righe, assegni familiari, bonus bebè, superbonus e così via. Un’elemosina dopo l’altra. Solo ora mi rendo conto di quanto sia inutile, e forse deleterio, porsi la domanda “Ha senso rientrare?”. Ha senso andarsene. Ha molto più senso a questo punto abbandonare la barca prima che affondi, sulla quale a sedere comodamente sono gli orwelliani Napoleoni, i gloriosi maiali che, come nella Fattoria degli animali, occupano sempre gli scranni più alti.
A 37 anni non me ne andrò. Ma se ne avessi di nuovo 27 scapperei domani. Il più lontano possibile, e pregherei ogni giorno il mio personale dio laico perché mi facesse un regalo: veder fallire le gloriose istituzioni del nostro beneamato paese. Magari con la spettacolarità di una pestilenza biblica. Tra tutti vorrei veder fallire il re dei re, lui. L’INPS. Mi darebbe un piacere fisico vederlo crollare. Non il palazzo dell’italico Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, da un secolo sogno proibito di noi italiani. Bensì il suo significato. Il paradosso che rappresenta. Siamo in ristrettezze, è evidente, visto che per procacciarci due spiccioli vogliamo cavare sangue da una rapa anemica. Eppure i pochi miliardi rimasti vanno a ingrassare i privilegiati di sempre, i figli della prima e della seconda repubblica, gli strapagati sopravvissuti alle rivoluzioni, alle monarchie cadute, al piombo versato, alle stragi al tritolo, ai processi di mafia e agli scandali sessuali. Gli immortali gattopardi per i quali, quando per noi cambia tutto, per loro invece non cambia mai niente.
Vorrei veder spuntare il giorno in cui la piramide si sgretolerà. Io quel giorno tirerò fuori la cetra e canterò ciò che fu. Quando vedrò i Tajani, i Gasparri, i La Russa, i Salvini, lavorare almeno un giorno nella loro vita. Ma lavorare sul serio, farsi un’ora di metropolitana per recarsi in cantiere, spaccarsi la schiena, e tornare a casa con le mani livide di fatica. Fino a quel giorno sono condannato ad ascoltarli pontificare da dietro un leggio, sbarbati e ripuliti, pasciuti, avvolti in abiti costosi, il collo gonfio di vene sotto capocce gigantesche. A forza di guardarli alla fine mi sono mi sono ricordato a che cosa assomigliano: ai turgidi corpi cavernosi di un membro eretto.
Se vi sembro troppo cinico, sentite questa: Giuliano Amato è appena stato scelto per ricoprire un incarico speciale. Magari non tutti se lo ricordano. Giuliano Amato è stato premier nel lontano 1992. Più di trent’anni fa. Già all’epoca era stagionatello. Me lo ricordo come una specie di ratto cieco, rannicchiato tra due spalle minuscole, gli occhiali larghi e spessi, inforcati su un naso adunco. Giuliano Amato oggi ha 85 anni. Praticamente un piede nella fossa. Dobbiamo all’oculata decisione di alcuni saggi maialini della vecchia Fattoria se l’attempato ex primo ministro, anziché godersi la meritata pensione e andare coi nipotini al parco, presiederà, a quasi novanta primavere, una commissione dedicata a studiare l’intelligenza artificiale. La notizia non è una bufala. È assolutamente vera.
La mia conclusione è forse cinica, troppo cinica. Ma è fondata. Il nodo rimane: da noi il vecchio si glorifica. Lo si esalta. Non importa che sia già stato cucinato. Lo si tratta come con certi avanzi di frigorifero: li si frulla e li si fa in brodo per un ultimo assaggio. Non si butta via niente. Solo la carne giovane viene vista con sospetto. Il suo aspetto liscio, non raggrinzito, il colore terso, non rancido, e l’odore fresco, tutt’altro che ammuffito, da noi sono indizi di colpevolezza. Da noi il giovane è un peso, un orpello fastidioso, che intralcia. ‘Ma perché i giovani non fanno figli? Perché non vogliono lavorare? Perché si lamentano di tutto: delle pensioni, dello stipendio, dei contratti, delle ore, degli straordinari, dei loro capi, della politica? Perché allora non se ne vanno, se qui non stanno bene?’.
Una volta fuggiti, i giovani, si augurano loro, non dovrebbero più tornare. Turberebbero la quiete di questo ospizio a cielo aperto chiamato Italia, di questa enorme distesa di teste canute e vesciche deboli. Solo che i giovani servono, e non solo a cambiare pannoloni. C’è il problema, appunto, delle pensioni. Se ce ne andiamo tutti, chi la mantiene la Fattoria? Questo sembra un punto che a nessuno viene in mente. Io, per parte mia, mi auguro una fuga di massa (e anche di Carrara). E a questo punto, se davvero uno avesse il coraggio di partire, gli auguro di non tornare più e di restare dov’è. Noi, che abbiamo sbagliato a illuderci due volte, pagheremo quel che c’è da pagare. Fino all’ultimo maledetto centesimo.
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Link: Petizione – Statistiche Rimpatri – Giuliano Amato
